È nel 1665 che i padri Basilio e Giuseppe – monaci camaldolesi della congregazione di Monte Corona provenienti dal monastero di Monte Rua e a Monte S. Giorgio già da due anni per seguire i lavori di costruzione della nuova casa – poterono trasferirsi definitivamente nel nuovo eremo, ben presto seguiti da altri confratelli. Il toponimo che distingue il luogo su cui sorge il complesso eremitico – come già detto, intitolato a S. Giorgio – ricorda l’antica chiesetta che fino al 1532 dominava questo colle e a sua volta dedicata al santo dalmata. Nel 1661, un nobile di Padova, Giovan Battista Dotti, entrò a far parte della congregazione coronese quale oblato presso l’eremo di Monte Rua. Di tutti i suoi notevoli possedimenti conservò per sé – con l’intenzione di farne dono alla sua nuova comunità di adozione – il solo Monte S. Giorgio.
A questo atto di grande generosità si aggiunse quello non meno importante di un altro nobile locale – un certo Alvise Becelli il quale provvide, a proprie spese, a integrare il lascito del nobile padovano con l’acquisto delle aree sulla sommità del monte, che non erano di proprietà del Dotti. Il periodo di grande fioritura dell’eremo di Monte Rua, a metà del XVII secolo, si combinò così con l’inattesa disponibilità di una tanto appetibile estensione di terreno in una zona estremamente suggestiva e caratterizzata da un clima quanto mai favorevole. Nel giro di pochi mesi ebbero dunque avvio i lavori per la costruzione del nuovo eremo, terminati, come accennato, nel 1665. Già nel 1672 l’eremo poteva essere elevato a priorato e primo priore della comunità fu, significativamente, Oddone, fratello di Alvise Becelli.
Nessun fatto particolarmente sconvolgente venne quindi a turbare la quiete dell’eremo di Monte S. Giorgio, fino agli anni in cui- quasi un secolo e mezzo dopo – per il decreto napoleonico che sopprimeva tutti i conventi e gli eremi presenti nel Regno d’Italia, anche la comunità monastica di Monte S. Giorgio fu dispersa.
Fu solo grazie all’iniziativa di privati che il complesso eremitico sfuggì alla distruzione, benché ciò per anni significasse, di fatto, la sua destinazione ad altro uso: il conte Danese Buri utilizzò infatti gli edifici dell’eremo – che nel frattempo egli aveva comperato a proprie spese – come ricovero per i contadini impegnati nella coltivazione delle terre circostanti. Risale a quell’epoca la distruzione delle tre celle della fila centrale e la trasformazione in terreno destinato alla coltura anche dell’area su cui originariamente questi edifici sorgevano.
Solo nel 1885 i monaci camaldolesi poterono rientrare in possesso dell’eremo, riacquistandolo da un erede del Buri. Da allora fino al 1992, il complesso monastico di S. Giorgio è rimasto di proprietà degli eremiti, eccezion fatta per un decennio circa (tra il 1962 e il 1972) quando fu affidato alla diocesi di Verona – che ne fece una casa per esercizi spirituali- a causa dell’impossibilità per la comunità camaldolese, eccessivamente ridottasi di numero, di sopportare l’onere che derivava dalla gestione per un certo periodo degli edifici e dei terreni. Dopo il definitivo abbandono della comunità coronesi, la proprietà è passata alla diocesi di Verona e affidata all’attuale comunità legata al Sacro Eremo e al Monastero di Camaldoli.